Ho recentemente scoperto la passione (intellettuale ovviamente) che nutriva Hannah Arendt per Socrate, messa nero su bianco in un libro che propone per iscritto un corso universitario tenuto negli Stati Uniti nel 1954. Ed è stata una lettura molto coinvolgente. Certo non avevo bisogno della filosofa tedesca per conoscere Socrate, ma la sua interpretazione del filosofo greco è davvero stimolante. Il pensiero di Hannah Arendt è stato contraddistinto dalla ricerca sulle ragioni del totalitarismo europeo e in generale del male nel mondo umano, il suo testo più popolare è quello del 1963 intitolato La banalità del male. In questo senso Socrate si pone come agli occhi della filosofa, come alternativa radicale a questo male, al totalitarismo.
La lettura della filosofa è tutta concentrata sulla dimensione politica, anzi, a suo parere la vita e la morte di Socrate rappresentano l’inizio di un contrasto, praticamente insanabile, fra i due campi. E per certi versi è vero, anche se va detto che si tratta di una interpretazione non storica, che guarda al filosofo greco con gli occhi del XX secolo. Socrate è stato straordinario, e vale la pena rifletterci sopra. Trascorreva la sua vita ad andare in giro per Atene a interrogare la gente sui concetti ultimi: cos’è il bene? Cos’è la giustizia? E lo chiedeva al macellaio, all’arrotino, al commerciante. Si tratta di una figura straordinaria per il suo tentativo di portare la filosofia fra le persone, non scrivendo libri di larga diffusione, ma praticandola. Socrate non ha scritto nulla. La sua vita stessa era filosofia, la sua esistenza quotidiana. La sua ricerca costante della verità, di una verità, la ricerca svolta insieme ad altri, ai suoi concittadini è uno straordinario tentativo di diffondere la razionalità, per non lasciarla nell’isolamento del filosofo pensante. Socrate non faceva filosofia, era la filosofia, nella sua essenza più pura. Non si tratta di una battuta a effetto. La sua vita stessa era devota al compito della filosofia, alla ricerca della conoscenza, nella consapevolezza che dovesse essere perenne, mai soddisfatta.
Stando a quanto ci riferisce Platone Socrate sosteneva di essere una levatrice del pensiero. Il suo compito non era quello di portare al mondo pargoli (ciò che facevano le levatrici) ma ragionamenti. Hannah Arendt interpreta questo passaggio come la volontà di spingere i concittadini a cercare la loro verità, una verità singolare, che appartenesse a ognuno. Non una semplice opinione, ma un’opinione motivata e ragionata, che passi al vaglio della ragione critica e che sia coerente al suo interno. In questo senso, a parere della filosofa, Socrate non cercava la Verità, ma spingeva i concittadini ad acquisire le loro verità, punti di vista sul mondo, ognuno diverso dagli altri, ma ognuno spicchio della complessità del mondo. Certo si tratta di una lettura molto influenzata dagli occhi di una pensatrice del XX secolo, che però può offrirci spunti per riflettere sul ruolo della filosofia e su come pensare la politica. Per Hannah Arendt Socrate è stato, sostanzialmente, l’inventore della coscienza. Ovvero attraverso il suo metodo filosofico, il dialogo, ha dato vita a un doppio (era lui che sosteneva di essere consigliato da un demone). Il doppio è in ognuno di noi, è il ragionamento interno, il dialogo, il dubbio: è vero ciò che penso? Il ragionamento interno e solitario, come se ci fosse un’altra persona che ci interpella sulle nostre convinzioni, è il nostro Socrate ed è la coscienza nella sua forma più alta, quella che ci mette in crisi e non ci fossilizza su certezze granitiche. Nella visione della filosofa probabilmente Socrate era il contraltare al totalitarismo, che lei aveva studiato e approfondito, la figura che, al principio della filosofia, aveva provato a sollecitare i concittadini a essere a loro volta filosofi. Una figura che, non avendo scritto nulla, potrebbe insegnarci ancora molto.